Dio e la violenza

Predigt in Bologna: 2 Kor 5,20 – 6,1

Le terribili immagini del crollo delle Torri Gemelle l’undici settembre duemilauno rimarranno per sempre impresse nella memoria dell’umanità: quelle di un evento catastrofico dove dei kamikaze hanno fatto schiantare due aerei pieni di passeggeri nel cuore commerciale di New York. Nel frattempo abbiamo purtroppo imparato che non si trattava che dell’inizio: prima Madrid, poi Londra e poi ancora l’attentato a Sharm el Scheik in Egitto sono stati la continuazione di questa catena di violenza, portando con sé una scia di morti e di distruzione. La domanda che sorge spontaneamente in ciascuno di noi è: Che cosa dobbiamo ancora attenderci da questa spirale di odio e violenza?

Non meno drammatica degli atti terroristici in sé sono le motivazioni che a essi sono state date dai terroristi che hanno compiuto queste azioni di violenza omicida. Una motivazione in cui traspare anche un’inquietante soddisfazione interiore: ossia, l’essere stati la semplice espressione di quella violenza che si troverebbe in tutte le religioni monoteistiche. Un Dio unico rispetto al quale si ritiene di dover discernere nella vita che si vive ciò che è vero e ciò che è falso. Questo fenomeno sarebbe oggi presente all’interno dell’Islam perché la maggior parte dei paesi musulmani sarebbe scioccata dal libertinismo di una società del divertimento e della frivolezza, sentendosi così come messi in trappola da un capitalismo selvaggio e senza regole, e vedendo in tutto ciò una radicale messa in dubbio della loro verità su Dio. Davanti a tutto questo, ai credenti musulmani non rimarrebbe altra via che quella di distruggere ciò che in base alle loro convinzioni sta finendo col distruggere loro stessi.

Ma quanto accade oggi all’interno dell’Islam potrebbe benissimo accadere allo stesso modo anche nelle altre religioni. E non possiamo non riconoscere che questo è accaduto nella storia anche per quanto riguarda il cristianesimo: ossia la difesa e l’imposizione di ciò che è nostro, di ciò che ci appartiene, attraverso una violenza omicida contro tutti coloro che la pensano diversamente da noi, o che credono in qualcosa d’altro da quello in cui noi crediamo.

Pochi giorni dopo gli attentai dell’undici settembre il noto socio-biologo e ateista militante Richard Dawkins ha affermato che riempire il mondo con le religioni abramitiche, ossia con l’ebraismo il cristianesimo e l’Islam, non vuol dire altro che disseminare per le strade della terra di fucili armati e poi magari meravigliarsi se qualcuno ha l’idea di farne uso effettivo. Questa sembrerebbe essere un’idea ampiamente diffusa oggi. Ma siamo proprio sicuri che nelle religioni monoteistiche si nasconda un nocciolo duro e inespugnabile di violenza cieca che non attende altro di esplodere?

Se ci si prende appena la briga di guardare le cose un po’ più da vicino ci si accorgerebbe immediatamente che le cose non stanno così, e che questa opinione oggi così diffusa è semplicemente falsa. E questo vale per il Tenach, quella parte dell’Antico Testamento che è vincolante per gli ebrei, vale per la Bibbia cristiana fatta di Antico e Nuovo Testamento, ma vale anche per il Corano il testo sacro dell’Islam. Un Islam che, certo, deve ancora imparare ad apprendere quella via storico-critica di leggere il suo Libro Sacro che il cristianesimo stesso ha appreso solo mediante un lungo, faticoso e doloroso processo.

Certo, la violenza emerge, e non in piccola misura, nei Libri Sacri; ed emerge proprio per questo motivo: perché la violenza è un tratto fondamentale del vissuto umano. E nei Libri Sacri la violenza viene posta anche in relazione a Dio perché sembra che l’uomo possa esprimere alcune cose che sono importanti per lui, ciò che lo scuote e lo attanaglia nel suo intimo, e soprattutto ciò di cui l’uomo ha paura, solo attraverso le immagini della violenza. E ciò che è importante per l’uomo, quello che conta, ha sempre a che fare con Dio.

Sempre, quando ne va di ciò che è importante per noi, quando ne va degli affetti, del dolore e della sofferenza, della gioia e del bisogno che ci opprime, noi uomini parliamo quella lingua più elementare e primitiva, quella lingua sensuale e animale fatta di immagini dell’esperienza che viviamo. Quando ci troviamo in queste situazioni facciamo tutto ciò nella maniera più drastica e più realistica possibile. Per questa ragione, soprattutto in situazioni che ci minacciano e sembrano essere senza via di uscita, Dio viene talvolta pensato nell’immagine di un vendicatore e di un guerriero che strappa i “suoi” da questa condizione di minaccia e pericolo massacrando quelli che sono i loro nemici.

Eppure già attraverso tutto l’arco dell’Antico Testamento si può cogliere come all’interno della tradizione dei Libri biblici vengano criticate e decostruite le immagini e la retorica della violenza. E più scorre il tempo della storia di Israele, più matura questa consapevolezza critica. Se Dio ha veramente creato il mondo, e se Egli ha veramente creato tutti, sì proprio tutti coloro che sono al mondo, allora questo Dio non può essere ingiusto e non può essere di parte. Il Dio che crea tutti coloro che sono al mondo non può preferire alcuni e rigettare altri, così che noi possiamo richiamarci a Lui per trovare una legittimazione nella nostra impresa violenta verso coloro che solo “altro” da noi.

Se Dio è veramente Dio, allora Egli tiene ancora nella sua mano anche coloro che appaiono essere i nostri nemici e coloro che si oppongono a noi. Ma allora, a questo punto e con la maturazione di questa consapevolezza, dobbiamo anche riconoscere che essi non sono più i nostri nemici, che essi sono esattamente come noi – uomini e donne tenuti nella mano di Dio. Proprio questo è quanto il profeta Isaia annuncia nei tempi incerti della deportazione babilonese. E Isaia lo annuncia pubblicamente e lo può fare in nome di Dio: Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità (Is 19,25). Incredibile e inaudita parola profetica, che proclama che i più acerrimi nemici e oppressori sono in realtà e verità affratellati tra loro in Dio. Verità, questa, che un giorno risplenderà in tutta la sua luce. In attesa di quel giorno il profeta afferma che già ora anche i nemici e gli oppressori sono benedetti da Dio.

Il Nuovo Testamento rafforza ulteriormente questa critica biblica della violenza. E lo fa non solo con la pagina bellissima delle beatitudini del Sermone della Montagna o con il comandamento di Gesù dell’amore per i nemici. Ma lo fa soprattutto, e questo è decisivo, nell’insieme della narrazione evangelica: esattamente nel modo in cui in essa si parla del Dio di Gesù. All’inizio di tutto questo sta la lieta notizia dell’incarnazione. Il diventare uomo di Dio in Gesù Cristo vuol dire proprio questo: Colui di cui non può essere pensato nulla di più grande si rivela proprio e solo così: nell’essere letteralmente questo movimento verso il basso nel gesto con cui si lega a un uomo singolo e concreto, Dio si annuncia come Colui che interdice, dal loro stesso interno, ogni grandezza, ogni potenza e ogni maestà.

Da un punto di vista cristiano Dio rivela la sua grandezza facendosi piccolo. La piccolezza è Dio, giù fino alla Croce sul Golgota. La piccolezza della Croce è Dio affinché noi possiamo essere liberati per sempre dalla paura e dal timore che Dio possa in un qualche modo volere il male dell’uomo – di qualsiasi uomo su questa nostra terra.

Proprio da questo nocciolo incandescente della notizia evangelica di Dio sgorga anche il passaggio della prima lettura che abbiamo ascoltato. Quello in cui Paolo sintetizza la sua missione e la sua auto-comprensione: Vi preghiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio (2Cor 5,20). Questo significa che è Cristo che prega e che noi siamo coloro che sono pregati. Anzi, ancor di più: in Cristo, infatti, è Dio stesso che ci prega, che ci chiede di riconciliarci tra di noi e con Lui. L’apostolo Paolo è l’anello successivo di questa catena del pregare e del chiedere. Un Dio che prega e chiede è però esattamente l’opposto di un’istanza di potere.

Un Dio che prega e che chiede non è più un Dio a cui si possa ricorrere per legittimare violenza e morte. E se invece questo accade ancora, e accadesse in futuro, allora che ricorre cristianamente a Dio per infliggere violenza e morte all’uomo non fa altro che piegare Dio a proprio consumo e vantaggio. Ma il nome biblico per un simile Dio è uno solo: idolo. Tutto questo è scritto a chiare lettere nei libri della genesi dell’uomo, di Israele e della Chiesa – quei libri che hanno a che fare con il potere, il potere politico e il potere ecclesiale. E questo è scritto in quei libri perché è naturale che laddove ci sono degli uomini che si uniscono ci sia anche il potere. Il potere, infatti, ha sempre a che fare con l’autorità – politica o religiosa che sia. Bene, questi libri ci dicono che l’autorità cristiana non si origina mai dalla forza e dalla violenza. L’autorità cristiana, ci dicono sempre questi libri a noi sacri, è sempre autorità acquisita e guadagnata – meritata potremmo dire: un’autorità che si acquisisce e si guadagna mediante la fiducia e che si radica nella bontà.

Può sempre essere che, talvolta, entrino sulla scena dei bulldozer che spianano tutto quello si trova sulla loro strada sotto la fascinazione ammaliante del potere e della forza – questo almeno finché gli uomini camminano nella storia. Questo può accadere soprattutto laddove un uomo pensa di poter e dover fare ciò che invece compete solo a Dio. Che anche gli uomini di Chiesa, che anche coloro che nella Chiesa hanno un’autorità ministeriale, non siano immuni da ciò, lo sappiamo fin troppo bene dalla nostra storia passata e dalla nostra esperienza presente.

Se coloro che si comportano a agiscono così nella Chiesa sapessero quanto sono ridicoli davanti a un Dio che non teme mai di pregare e chiedere alle sue creature di stringere con fiducia la Sua mano riconciliante, allora forse costoro penserebbero e agirebbero in maniera ben diversa.

La tentazione della forza e della violenza, che troviamo all’interno della stessa dimensione religiosa, trova la sua ragione teologica nel fatto che anche le nostre immagini di Dio stanno sotto quella ferita e feribilità dell’umano che chiamiamo peccato. Il peccato è ciò che ci fa essere già sempre in una prospettiva egoistica del vivere. È per questo che anche le parole su un Dio dell’amore non sono mai immuni dall’essere anche una presa di posizione partitica, come non sono mai immuni da una retorica di parte. Questa realtà ambivalente è stata colta in maniera esemplare da Herder, le cui parole devono sempre suonare come un campanello dall’allarme per noi: Tu, o uomo, vuoi Dio come un amico che pensa a te. Ma ricorda che allora Dio deve pensare a te anche umanamente, ossia in maniera limitata. E quando Dio è di parte per te, allora Dio sarà contro altri da te.

Questo vuol dire che anche la parola più religiosa e più personale su Dio rimane sempre bisognosa di conversione. La cosa non dovrebbe sorprendere più di tanto; lo stesso vale, infatti, anche su un piano puramente umano, per ogni nostra parola – da quelle che diciamo in pubblico fino a quelle che scendono nel più intimo del privato.

E chi saremmo noi, quelli che Cristo prega e a cui chiede, se a nostra volta non porgessimo la mano a ogni uomo e ogni donna dai quali qualcosa ci separa? E chi saremmo noi, quelli che Cristo prega e a cui chiede, se non intrecciassimo la nostra mano risollevati con ogni mano tesa che ci viene incontro?

Pace e riconciliazione fra il cielo di Dio e la terra degli uomini, e pace e riconciliazione tra gli essere umani tra di loro, sono il gesto inseparabile di una mano tesa che desidera l’intreccio con ogni altra mano. Solo così il nostro mondo di uomini e donne può trovare la sua sussistenza. Per questo pace e riconciliazione sono ben più che degni ogni giorno della nostra preghiera.