Riassunti dei contributi

(Traduzione di Patrizia Carmassi)

 

Olaf Zumhagen, Tedaldo di Milano (1075-1085). Un arcivescovo senza civitas (pp. 3-23)

L'episcopato di Tedaldo ha lasciato chiaramente la sua impronta nella tradizione storiografica, soprattutto in quella milanese. Il continuatore della 'Historia Mediolanensis' di Landolfo Seniore traccia il ritratto di un arcivescovo fedele al re, modello da imitare, mentre il continuatore del 'Liber gestorum recentium' delinea la posizione dell'arcivescovo 'vicina a Roma'.

Tuttavia lo stato delle fonti non si presenta affatto come favorevole per chi voglia caratterizzare piú da vicino l'episcopato di Tedaldo. Anche se Tedaldo non fu un 'fallito', come spesso viene descritto nelle fonti, sul periodo del suo episcopato, sulla base degli autori milanesi, si conosce solo poco di veramente sostanziale, quando addirittura non ci si deve fermare di fronte a grossi punti interrogativi. Nonostante ció il giudizio sul suo episcopato non deve rimanere solo a livello di una trattazione superficiale. Sulle ragioni dell'azione di Tedaldo dopo il 1077 e sulla base di potere che rimase a sua disposizione in quanto arcivescovo cacciato dalla cittá, si possono fare solo affermazioni di carattere generale.

La sua azione, tuttavia, si lascia in singoli casi delineare con chiarezza, anche se le notizie delle fonti sono molto ridotte. Dopo la sua caduta nel 1077 Tedaldo godette ancora di un vasto appoggio nell'arcidiocesi. Nel periodo successivo fu uno dei personaggi piú importanti al seguito di Enrico IV. Riusci anche a creare una situazione politica tale nella cittá, che non poté essere ignorata dai suoi successori.

La cacciata di Tedaldo nel 1077 non rappresentó un'attiva presa di posizione della cittá di Milano a favore di Gregorio VII perché, finché Tedaldo visse, non fu eletto nessun altro vescovo della cittá e oltre a ció le fonti non lasciano intravedere nessuna attivitá della comunitá cittadina a favore di Gregorio VII. Dal 1077 al 1085 pare che a Milano non sia affatto cessata la discussione su come ci si dovesse comportare nei confronti dell'arcivescovo Tedaldo e della questione della sua successione. La continuazione di due opere milanesi, concluse appena un decennio prima, rappresenta in un tale contesto l'espressione immediata di questa difficile situazione nella cittá di Milano. E' significativo che le successive assegnazioni del seggio arcivescovile milanese si svolgessero in un clima di aspri dissensi all'interno dei ceti dirigenti cittadini.

 

 

Claudia Becker, Sub gravioribus usuris. I contratti di prestito del comune di Chiavenna nel XII e XIII secolo (pp. 25-48)

Il comune rurale di Chiavenna dalla metá del XII secolo coprí il suo bisogno di denaro contante in grandissima parte accendendo dei crediti presso ricchi cittadini di Como. Ben presto peró si trovó nella necessitá di chiedere nuovi prestiti solo al fine di pagare quelli precedenti.

Di tali negozi ci sono tramandati moltissimi contratti di prestito, ricevute di ogni tipo e documenti processuali. Tale materiale documentario testimonia che soprattutto a partire dal 1200 l'utilizzazione della scrittura crebbe in questo campo in misura eccezionale. Inoltre esso rivela per quali molteplici motivi alcune parti dei contratti di prestito furono stese in forma sempre piú ampia, fino addirittura ad un triplicarsi dell'ampiezza del documento nel giro di ca. 50 anni.

Si trattava soprattutto di misure di sicurezza di ogni genere, atte a garantire al creditore la riscossione di quanto aveva prestato (con gli interessi anch'essi fissati per iscritto). Parimenti i debitori dovettero rinunciare a un numero sempre piú grande di agevolazioni giuridiche previste dal diritto romano, o canonico o anche dalla legislazione cittadina. Quest'ultima esercitó anche un diretto influsso sulla struttura assunta dai documenti, nel senso che alcune innovazioni nel formulario degli stessi furono fissate mediante statuti. Oltre a ció anche i modi di utilizzazione del documento, cosí come le forme con cui si dimostrava l'avvenuto rimborso del denaro, furono regolati per iscritto.

Le operazioni di credito finirono per articolarsi in piú momenti: contrazione del prestito, pagamento degli interessi, rimborso (completo o parziale), spesso anche vendita o cessione del credito o anche provvedimenti giudiziari. Ogni singolo aspetto parziale del negozio veniva registrato attraverso un documento a sé. La relazione col contratto originario veniva garantita attraverso un'ampia citazione delle clausole o addirittura attraverso la trascrizione del contratto stesso. Tutto questo portó ugualmente ad una crescita nel numero e nella lunghezza dei documenti.

 

Nikolai Wandruszka, La rivolta del popolo a Bologna dell'anno 1228 (pp. 49-63)

La rivolta del popolo del 1228 a Bologna segna un punto di svolta nello sviluppo dal potere oligarchico della nobiltá alla partecipazione del popolo al governo della cittá. Finora si riteneva quale causa scatenante la rivolta il conflitto con Modena dell'autunno 1228; la rivolta stessa veniva datata al novembre 1228. Il confronto tra diverse cronache che parlano di questo avvenimento mostra peró che nell'anno 1228 hanno avuto luogo due tumulti: uno fu l'uccisione di un traditore il 22 novembre 1228, il secondo la rivolta sotto la presunta guida di Giuseppe Toschi, che si verificó prima del 4 ottobre 1228. Come causa scatenante la rivolta si é palesata la sconfitta dei bolognesi contro i conti di Romagna, avvenuta a Mazincollo presso Imola l'11 febbraio 1228. Cosí la rivolta ebbe luogo tra l'11 febbraio e il 4 ottobre 1228, verosimilmente quindi ancora nella prima metá dell'anno.

Anche la valutazione del ruolo di Giuseppe Toschi deve essere soggetta a revisione. Egli non fu né il capo della rivolta, né una specie di condottiero che si nominó da sé. Fu piuttosto il rappresentante dei commercianti, il quale, insieme agli altri rectores societatum artium, aveva espresso la richiesta di un consilium generale, vale a dire di una partecipazione al potere da parte del popolo organizzato, appunto di quelle stesse societates. Solo il mancato esaudimento di quella richiesta portó a una 'rivolta' (incepto rumore populi). Sui suoi capi e sulla sua organizzazione peró non sappiamo nulla.

Giuseppe Toschi apparteneva all'aristocrazia consolare cittadina, la sua famiglia possedeva una torre nella cittá e servi della gleba. Essa testimonia dunque con evidenza la partecipazione della nobiltá cittadina alla formazione soprattutto della societas mercatorum et campsorum, che solo verso la metá del secolo avrebbe dovuto cedere la sua funzione di guida ai macellai e poi ai notai.

 

 

Marita Blattmann, Bona vicinanciae receperunt et non designaverunt ... L'amministrazione del denaro pubblico in un distretto cittadino bergamasco verso il 1290 (pp. 65-92)

Le scritture amministrative conservateci per gli anni 1283-1303, relative alla vicinia di San Pancrazio in Bergamo, rappresentano un fondo unico nel suo genere, che consente di esaminare le procedure dell'amministrazione delle finanze comunali ai livelli piú bassi. Sul modo di procedere riguardo ai possedimenti e alle transazioni correnti di denaro della vicinancia (vale a dire la comunitá giuridica costituita dagli abitanti del distretto) ci informano diversi tipi di documenti: giuramenti di funzionari, inventari, registri di entrate e di uscite, note di avvenuto controllo da parte del revisore dei conti, contratti, protocolli delle assemblee cittadine, ma soprattutto la relazione di una commissione d'inchiesta, che nel 1292 ha il compito di verificare l'attivitá del tesoriere a partire dal 1283. Da questi documenti emergono una prassi e una finalitá nell'amministrazione pubblica delle finanze nel distretto diverse da quelle che uno studioso moderno potrebbe aspettarsi. Non esiste una 'cassa' della vicinancia, contenente il denaro liquido, che viene trasmessa da un tesoriere all'altro. Il tesoriere, invece, la cui carica dura per sei mesi o un anno, provvede prima a pagare le spese ricorrendo ai suoi possedimenti privati, poi cerca di recuperare quanto ha anticipato da locatari o debitori della vicinancia. In questo egli incassa una somma di denaro all'incirca pari alla copertura delle sue spese. Per le somme non immediatamente necessarie vengono concesse delazioni ai debitori. Queste vengono poi richieste a seconda dei bisogni anche molti anni piú tardi - con o senza il pagamento di interessi. Il fatto che i debitori adempiano ai loro obblighi con molto indugio rende piú difficile un preciso conteggio anticipato delle entrate. Pertanto i tesorieri che nel periodo in cui sono in carica ricevono piú denaro di quello di cui hanno bisogno, non pagano la somma eccedente al loro successore, ma la trattengono, come ogni altro debitore della vicinancia, finché non ricevano un esplicito avviso di pagamento.

La procedura, a causa della temporanea commistione tra beni privati e beni comunitari richiede una contabilitá scritta molto precisa, che tuttavia tenga conto solo di quelle transazioni che riguardano il tesoriere. Pertanto i presunti 'libri della contabilitá della vicinancia' non registrano affatto tutte le transazioni della comunitá. Poiché da un lato anche i consoli effettuano riscossioni e pagamenti a nome della vicinancia, e dall'altro alcune somme per decisione dell'assemblea senza passare attraverso il tesoriere vengono pagate direttamente da debitori a creditori della vicinancia, importanti spostamenti di denaro rimangono non documentati e dopo un certo periodo ció ingenera confusione.

Tra le norme e la prassi dell'amministrazione delle finanze si apre a S. Pancrazio un divario notevole, ma evidentemente tollerato da tutte le parti in causa. Le prescrizioni statutarie vengono seguite negligentemente, le scadenze non vengono quasi mai rispettate, le infrazioni non vengono punite, multe e interessi di mora non vengono riscossi. Alcune decisioni prese nell'assemblea dei cittadini svolgono la funzione di correggere gli abusi ma, se mai vengono attuate, hanno breve durata. L'insieme della complessa documentazione di S. Pancrazio mostra come si debba fare i conti con evidenti deformazioni, se si ricostruiscono le procedure amministrative all'interno delle istituzioni medioevali primariamente sulla base delle fonti normative, 'completando' le informazioni documentarie su quelle stesse procedure, di cui si disponga solo frammentariamente, nel senso di uno svolgimento di tipo ideale.

 

 

Juliane Trede, Osservazioni sulla mobilitá sociale della popolazione rurale nel XIII secolo. La famiglia Cerpanus/de Honrigono di Varese (pp. 93-104)

La famiglia Cerpanus/de Honrigono nella prima metá del XIII secolo faceva parte dei cittadini del burgus di Varese che da un punto di vista economico avevano avuto un grandissimo successo. La loro ascesa nella societá rurale si collegava soprattutto al mercato dei capitali, che dalla fine del XII secolo ebbe un notevole incremento. Sia a Varese che nel piú immediato circondario i Cerpani divennero uno dei punti di riferimento piú importanti nel caso di insorgenti difficoltá finanziarie. La considerazione di cui la famiglia godeva sul piano sociale era peró un'altra cosa rispetto al successo professionale. Mentre si possono provare contatti d'affari con abitanti del contado appartenenti a tutti i ceti sociali, la famiglia rimase per lungo tempo isolata da un punto di vista sociale. Solo con il trasferimento nella cittá di Milano cominció a crescere lentamente - a quanto pare - anche il riconoscimento sociale della famiglia. Assieme ad altre premesse, nel caso dei Cerpani la disponibilitá di un grosso capitale mobile e le competenze nel campo commerciale, la scelta della residenza in cittá rappresentava nel XIII secolo la migliore possibilitá per far avanzare la propria posizione sociale. L'esempio evidenzia inoltre alcuni dei problemi fondamentali, connessi soprattutto con la tradizione manoscritta, che si pongono a chi voglia studiare le forze emergenti nella societá dell'epoca.

 

 

Jürgen Treffeisen, Sculdascio e borgomastro. Le funzioni dirigenti nelle piccole cittá del Breisgau nel tardo medioevo (pp. 105-128)

Le quattro piccole cittá oggetto di questa ricerca, Neuenburg sul Reno, Kenzingen, Endingen sul Kaiserstuhl e Sulzburg cercarono di ridurre il potere e l'influenza degli sculdasci nel corso del XIII e XIV secolo. La facoltá di nomina doveva passare tra le competenze comunali e l'ufficio dello sculdascio doveva limitarsi a compiti di natura giudiziaria. Sotto questo aspetto Neuenburg ebbe pieno successo. A Kenzingen e Sulzburg invece lo sculdascio mantenne una posizione di vertice sul piano politico per tutto il medioevo. La facoltá di nomina rimase in queste due localitá nelle mani dei signori cittadini. Come concessione al comune tuttavia poteva essere nominato solo un cittadino. A Endingen in un primo momento subentró al posto dello sculdascio il giudice.

Parallelamente alla limitazione delle competenze dello sculdascio bisogna considerare l'ascesa del borgomastro, il cui potere a Neuenburg, Kenzingen e Endingen vide una crescita costante. In queste tre cittá, alla fine di un processo evolutivo durato decenni, si osserva l'avvenuto riconoscimento di un tale sviluppo da parte dei signori cittadini. A Sulzburg, la piú piccola delle cittá esaminate, l'istituzione della carica di borgomastro rimase un episodio di breve durata.

Sculdascio e borgomastro rappresentavano a Neuenburg dalla seconda metá del XIV secolo lo stadio finale di due diverse carriere comunali. A Kenzingen invece si poteva passare dall'ufficio di borgomastro a quello di sculdascio. In tutte e due le cittá molto spesso i curatori dei monasteri cittadini e delle istituzioni ecclesiastiche venivano recrutati dalle file dei borgomastri. Anche a Endingen una stessa persona poteva diventare prima borgomastro e poi giudice. A Sulzburg, a partire dalla seconda metá del secolo XIV, lo sculdascio proveniva sempre dalla cerchia degli scabini e, dopo aver svolto la sua attivitá, vi ritornava.

 

 

Franz-Josef Arlinghaus, Io, noi e noi insieme. L'utilizzazione di concetti transpersonali nei contratti di una compagnia di commercio italiana del XIV secolo (pp. 131-153)

Lo sviluppo economico a partire dal XII secolo, soprattutto in Italia e particolarmente nel campo del commercio a largo raggio, allora assai fiorente, portó allo sviluppo di nuove tecniche e strutture. La compagnia, all'inizio prevalentemente un'impresa familiare indirizzata al commercio interno, assunse sempre di piú il carattere di una federazione di commercianti 'tra loro estranei' basata su un accordo contrattuale libero. La questione da porsi é dunque: quale concezione avevano i commercianti della propria attivitá nel corso di questa evoluzione che prima di tutto aveva un fondamento di natura economica? Concretamente ci si deve chiedere dove l'idea astratta e transpersonale di 'compagnia' diviene tangibile, da dove si era sviluppata, e in quale misura essa venne utilizzata per formulare contratti e per tenere i libri di conto.

L'oggetto dell'analisi é costituito dai libri di conto di una piccola compagnia di commercio fondata nel 1367 da Toro di Berto e da Francesco Datini ad Avignone, la quale giá nel 1373 venne sciolta. Sia nei loro conteggi che nei contratti privati di fondazione, rinnovo e scioglimento della loro compagnia sono prevalentemente i due contraenti stessi che da soli o insieme decidono qualcosa, o per i quali qualcosa viene registrato. Dove nei contratti compare un concetto transpersonale, questo accade nella maggior parte dei casi in un contesto che rinvia in senso piú ampio alla rete delle relazioni sociali della ditta, sia al suo interno, tra soci e collaboratori, sia all'esterno. Fu particolarmente in questo ambito tematico, e non in quello delle attivitá economiche, che vennero alla luce e furono ampiamente utilizzate concezioni astratte di 'ditta'.

Accanto a questa collocazione tematica compare anche un altro fenomeno: La compagnia come soggetto attivo compariva nei contratti sempre soltanto in stretto collegamento con i soci, ugualmente presenti come agenti, e nella maggior parte delle volte contrapposta ad essi. In nessun punto Toro e Francesco utilizzarono il concetto astratto che pure era a loro disposizione in modo tale che esso potesse determinare in senso assoluto un paragrafo o anche una sola frase. Con questo collegamento apparentemente 'necessario' con le 'persone reali' appare chiaramente anche il limite che si presenta a chi voglia documentare l'utilizzazione di concetti transpersonali di compagnia nelle scritture commerciali di questa ditta.

 

 

Thomas Behrmann, 'Commerciante della Lega anseatica', 'cittá della Lega anseatica', 'Lega anseatica tedesca'? La terminologia relativa alla Lega anseatica e la concezione della stessa da parte dei suoi membri nel tardo medioevo (pp. 155-176)

Prendendo spunto dalla constatazione del fatto che i mercanti della Lega anseatica in Italia venivano chiamati Sterlini e nell'Europa occidentale Esterlinge/Oosterlinge in questo contributo ci si interroga sui motivi della discrepanza tra questo tipo di denominazione e il termine Ansa. Cosí si tocca il problema dell'identitá di quei mercanti bassotedeschi e di quelle cittá che erano unite tra loro da interessi economici comuni, ma che spesso avevano diversi orientamenti politici. La ricerca finora non si é occupata di tale questione, ma ha generalmente accettato il termine Ansa, senza interrogarsi sulle differenze esistenti da caso a caso, da epoca a epoca. Inoltre, in epoche precedenti, é stato soprattutto sottolineato l'elemento 'tedesco' di questa confederazione di cittá.

Dalle fonti scritte si ricava peró, per il tardo medioevo, che i mercanti dell'Ansa in Inghilterra e nelle Fiandre o in Burgundia non assegnavano un valore superiore alla firma apposta in nome dell'Ansa. Questo vale anche all'interno del territorio del Regno per le cittá anseatiche, un'espressione che di regola viene usata al plurale e non per la caratterizzazione particolare di una cittá. Il termine Ansa invece si limita spesso per mercanti e cittá sia all'estero che nel Regno a quei casi in cui si doveva ottenere un preciso scopo economico o soprattutto politico. Ci si rifá all'appartenenza al gruppo dei mercanti o delle cittá anseatiche oppure ci si presenta a nome dell'Ansa, per godere dei privilegi comuni o per portarsi, a livello diplomatico, in una posizione di vantaggio.

I mercanti bassotedeschi tuttavia, quantomeno nelle Fiandre e in Burgundia, hanno evidentemente sottolineato non solo il loro legame con l'Ansa, ma anche la loro origine nazionale, ma solo per determinati motivi. Lo sviluppo inverso, fatto di rivendicazioni e di influenza esercitata dalle cittá anseatiche, diviene evidente particolarmente nella prima etá moderna. Sorge allora una forma di argomentazione storicizzante che, partendo dalla posizione di potere - rappresentata a tinte brillanti - di cui le cittá anseatiche avevano goduto nel passato, elabora un modello da attuare nel presente. Questa tendenza raggiungerá il suo apice nel XIX secolo.

 

 

Michael Drewniok, Il monastero di Bredelar e i signori di Padberg: un complesso rapporto tra vicini nel medioevo (pp. 179-204)

Nell'estremo angolo a sudest di Paderborn, sul confine tra questa diocesi e l'arcidiocesi di Colonia, si insediarono nel 1196 nel monastero di Bredelar, precedentemente occupato da monache premostratensi, i monaci cistercensi. Su di un colle di fronte ad essi si trovava il castello dei signori di Padberg, i quali nel 1120 si erano stabiliti lí in qualitá di ministeriali dell'arcivescovo di Colonia. Le sorti dei monaci e dei signori di Padberg furono fin dall'inizio strettamente collegate tra loro. Inoltre sia il convento che la famiglia nobile non rimasero estranei alle vicende politiche contemporanee. I monaci erano sostenuti dal vescovo di Paderborn, alla cui diocesi Bredelar apparteneva. I signori di Padberg difendevano gli interessi dell'arcivescovo di Colonia, a cui appartenevano i diritti territoriali e feudali. Entrambi i principi osservavano con interesse il monastero soprattutto a partire dall'epoca in cui, nell'XI secolo, cominciarono a formare dei territori autonomi. Il significato di Bredelar come caposaldo per il rafforzamento dei confini ancora incerti crebbe per entrambe le parti nel momento in cui i cistercensi cominciarono a lavorare la zona incolta intorno al convento, fino ad allora a mala pena bonificata. Dall'economia agricola, che fiorí rapidamente, traeva vantaggio la popolazione della regione, che lavorava nelle corti del monastero, da questo affittava terre o praticava attivitá di commercio con la comunitá. Anche con i signori di Padberg si arrivó ad un vivace scambio commerciale. Questi proteggevano e favorivano i loro vicini sia per incarico dell'arcivescovo, loro signore, sia pensando ad un accrescimento dei loro territori. La coesistenza, che nel complesso era risultata armonica ed era stata turbata solo raramente da incidenti di lieve portata, fu messa a dura prova nel XIV secolo. Epidemie, contese irrisolte, cattivi raccolti ed una costante inflazione, portarono - in una specie di reazione a catena in senso negativo - all'abbandono di intere aree coltivate. La 'crisi del tardo medioevo' colpí i due vicini Padberg e Bredelar in misura diversa. Il convento non fu risparmiato dalla crisi, ma la sua base economica era abbastanza fondata da poter superare anche periodi difficili. Per i signori di Padberg invece le cose andarono peggio. Essi poterono compensare le loro perdite economiche solo nella misura in cui depredavano le regioni di confine di Paderborn, Colonia, del Waldeck e dell'Assia come predoni. Al tempo stesso peró essi continuarono a perseguire le loro ambizioni in campo territoriale.

Il monastero di Bredelar subí le conseguenze di questa situazione. Non solo gli attacchi dei predoni erano pericolosi. La difesa dei signori di Padberg, che si erano uniti ad altri cavalieri in vere e proprie bande pronte a combattere, portó a dei lunghi conflitti armati, che spesso si scatenavano intorno al castello di Padberg. Non di rado gli insediamenti vicini, le corti, e lo stesso monastero, finivano per restarne coinvolti. La minaccia piú grave dileguó, quando verso il 1400 le bande di cavalieri poterono essere finalmente domate. I signori di Padberg continuarono ad usurpare possedimenti dei monaci di Bredelar. Tuttavia le maggiori difficoltá venivano ora al monastero dal fatto che le comunitá cittadine dei dintorni erano sempre piú consapevoli dei propri diritti e non avevano piú intenzione di riconoscere in tutta la loro ampiezza i privilegi ecclesiastici dei cistercensi.

 

 

Roland Rölker, I conti della Mirandola davanti alla corte imperiale di giustizia. Processo e documentazione in una lite familiare per la contea di Concordia tra XV e XVI secolo (pp. 205-221)

Tra i primi atti processuali della corte di giustizia imperiale fondata da Massimiliano I nel 1495 si annovera una contesa tra i membri di un casato nobile dell'Italia settentrionale: i della Mirandola. La lite riguardava l'investitura con la contea di Concordia quale feudo imperiale. Il processo, intentato nel 1499 e che, con i suoi precedenti, arriva fino all'epoca di fondazione della corte, consente di osservare lo svolgimento di un procedimento abbastanza insolito alla corte di giustizia imperiale nel passaggio dal XV al XVI secolo. Inoltre vengono qui alla luce da un lato i problemi di competenza delle istituzioni giuridiche in una fase di passaggio da un'amministrazione della giustizia esercitata alla corte del sovrano alla giurisdizione da parte di un'autoritá giudiziaria con sede fissa, dall'altro la funzione delle scritture compilate nel corso del procedimento. Dopo che i feudi imperiali di Concordia e Mirandola erano passati in ereditá comune a Galeotto e Antonio Maria Pico della Mirandola, Galeotto si era impadronito della contea di Concordia assegnata a suo fratello. Antonio Maria intentó pertanto con il sostegno della Chiesa un processo contro Galeotto davanti alla Rota romana, ma alla corte di Massimiliano I non ottenne il sostegno per far valere i diritti riconosciutigli in giudizio. Anzi, dei commissari regi investirono il fratello del territorio conteso. Antonio Maria ricorse pertanto in appello contro questa decisione. Alla corte di giustizia imperiale si discusse se si dovesse avviare un giudizio per mandato concernente la citazione di Galeotto come accusato davanti a tale autoritá giudiziaria. Dopo la morte dei due fratelli i figli di Galeotto entrarono in lite per l'ereditá e ottennero una nuova negoziazione della questione davanti alla corte imperiale di giustizia. Tuttavia, dopo questo tentativo di risolvere la lite in giudizio, i due partiti cercarono comunque di impossessarsi di tutta l'ereditá.

 

 

Hedwig Röckelein, Aspetti pragmatici degli scritti agiografici nell'alto medioevo (pp. 225-238)

Da un punto di vista pragmatico l'agiografia altomedioevale costituí un genere estremamente efficace e ricco di possibilitá. Faceva sí che i santi rimanessero nella memoria degli uomini, che il culto di un santo si potesse estendere sia a livello locale che regionale, che le virtj del santo fossero considerate come modello per gli altri uomini. Essa contribuiva inoltre a supportare la propaganda a favore della religione cristiana e della concezione del potere propria del regno franco. L'agiografia veniva recepita in ambienti monasticoclericali sia per scritto che oralmente, e forniva la base per la predicazione rivolta ai laici. Grazie alla sua estrema adattabilitá poteva rapidamente reagire ai mutamenti verificatisi nell'ideale e nella concezione di santitá, ai cambiamenti di gusto nello stile e alle trasformazioni degli interessi propagandistici di natura politica legati al culto dei santi.

Il pubblico 'misto' di lettori e uditori, chierici, monaci e laici, che fin dall'epoca merovingia si interessava alla vita dei santi, rimase fedele all'agiografia anche nell'etá carolingia. Solo che ora i testi erano diversi, per stile e forma, in relazione al livello culturale dei loro fruitori. Nelle regioni della Sassonia, che erano terre di missione, pare comunque che l'operato dei santi, la loro attivitá miracolosa e la protezione da essi accordata, abbiano convinto di piú che le parole dei predicatori, che si basavano sulle vite dei santi messe per iscritto.

 

 

Jörg W. Busch, Gli 'Annales Patavini s. Iustinae' a Milano. Contributo allo studio della diffusione di opere storiografiche norditaliane nel XIII e agli inizi del XIV secolo (pp. 239-254)

Le opere storiografiche delle cittá norditaliane nel XIII e agli inizi del XIV secolo non furono lette e utilizzate solo nel loro luogo di origine. Al contrario, giá all'epoca in cui il comune si era pienamente formato, la guida del comune, cioé il podestá itinerante che veniva chiamato per un tempo determinato da un'altra cittá, era latore non solo di conoscenze nel campo amministrativo, ma anche storiche. Quando cominció a formarsi la Signoria, divennero attivi nella trasmissione di opere storiografiche anche quegli ordini mendicanti che, pur risiedendo nelle cittá, erano al tempo stesso collegati tra loro in una rete sovraregionale. Nel caso degli 'Annales s. Iustinae' di Padova, che qui sono oggetto di una trattazione particolare, e che nel XIV secolo si trovavano nella lontana Milano, emerge tuttavia una terza via di trasmissione, dovuta a canali privati.

 

 

Thomas Scharff, L'inquisizione nella storiografia italiana del XIII e del primo XIV secolo (pp. 255-277)

La storiografia italiana del medioevo non fornisce che scarsissime notizie sull'inquisizione. Sui suoi inizi ed il suo operato quotidiano nelle cittá non si trovano che pochi acceni, e persino i maggiori processi vengono appena menzionati. Laddove peró l'inquisizione é attiva vengono descritti eventi spettacolari: si tratta, nella maggior parte dei casi, di conflitti tra un Comune, o un gruppo di persone all'interno di esso, e gli inquisitori.

Comparando diverse cronache di tali situazioni di conflitto (Genova 1256, Parma 1279, Firenze 1345), vengono in luce alcune parallele nell'esposizione dei fatti e nell'effettivo svolgersi dei conflitti: gli autori, che attingono le loro informazioni in parte dalla documentazione ufficiale del Comune, identificano gli inquisitori con i frati degli ordini mendicanti, come del resto fa anche la popolazione cittadina. Solo una parte del Comune (mali homines o simili) viene vista come avversaria degli inquisitori, mentre il Comune nel suo complesso é presentato per lo piú tutto teso a ricercare un accordo con essi. Quanto allo svolgimento del conflitto, si puó dedurre che ai suoi inizi vi siano in genere contrasti di materia giuridica, esplosi poi spesso in azioni di violenza contro gli inquisitori. Vediamo quindi questi ultimi lasciare la cittá, colpirla di interdetto e/o scomunicarne i rappresentanti. I Comuni, da parte loro, raggiungono una soluzione del conflitto cosí escalato di norma inviando alla Curia delegazioni per negoziare con successo il compromesso.

Non si trova, nelle cronache, una critica sostanziale nei confronti dell'inquisizione. Che critiche venissero avanzate é peró documentato attraverso i protocolli dell'inquisizione. Ed anche le novelle del secolo XIV raffigurano spesso il tipico inquisitore come un personaggio avido e crudele. Evidentemente aveva contribuito alla formazione di questo giudizio anche il fatto che l'inquisizione agli inizi del secolo si fosse discreditata in seguito a casi di corruzione.

 

 

Nora Gädeke, L'interesse per i documenti degli Ottoni a favore di Quedlinburg nella Hannover dell'epoca di Leibniz (pp. 279-295)

La prima grossa edizione dei documenti di Quedlinburgo é il lavoro del sovraintendente e predicatore di corte F. A. Kettner, 'Antiquitates Quedlinburgenses', 1712. Nella Landesbibliothek di Hannover nella Bassa Sassonia si trova un esemplare che, date le numerose note aggiunte a mano, risulta essere l'esemplare di lavoro utilizzato dagli storiografi del casato Braunschweig-Lüneburg G. W. Leibniz e J. G. Eckhart. Lo studio delle annotazioni marginali, che si moltiplicano soprattutto nella parte relativa all'epoca degli Ottoni e dei primi Salici, rivela diversi interessi particolari nel lavoro condotto su questa raccolta. Mentre per Leibniz al centro dell'attenzione si colloca lo studio del contenuto, per Eckhart é piú importante una minuziosa critica filologica. Questo dipende da un lato dalla differenza tra le generazioni, che connota effettivamente le diverse fasi iniziali della scienza storica, dall'altro da un diverso modo di accostarsi agli originali. Mentre i documenti di Quedlinburgo fino all'apparire dell'edizione di Kettner rimasero sostanzialmente chiusi a chiave - solo il casato Braunschweig-Lüneburg li utilizzó a scopi politici, ma sempre per vie segrete e avventurose - Eckhart aveva evidentemente libero accesso alla documentazione. In questo senso si puó gettare uno sguardo sulle condizioni quotidiane di lavoro, nelle quali sorsero gli 'Annales imperii' di Leibniz, concepiti come storia del casato guelfo, e di fatto la prima storia scritta sull'impero in epoca altomedioevale. Al tempo stesso si possono cogliere gli interessi per le fonti altomedioevali in una corte nell'epoca barocca, fonti utilizzate sia al servizio della politica attuale, sia per scopi puramente storiografici.